di Luisa Torsi
Bisognerebbe insegnare alle ragazze che fra “vestale della scienza modello-Rita-Levi-Montalcini” e “donna dedita full o part-time alle esigenze del nucleo familiare” esiste una terza via: esserci per la propria famiglia pur passando quasi tutto il proprio tempo impegnate in un lavoro di elevata responsabilità. La verità è che una donna super-impegnata nella professione può anche avere una famiglia che funziona; la gestione della logistica sarà sicuramente più complicata ma questo diventa un dettaglio superabile quando in gioco ci sono la felicità delle persone e l’ottimizzazione nell’impiego delle risorse umane.
Il punto cruciale è però imparare a “scegliere di scegliere” mettendo al centro la propria realizzazione professionale e/o personale. Questa è una rivoluzione copernicana a cui noi donne non siamo ancora pronte, nonostante le battaglie delle nostre mamme. Quando allora, dopo aver studiato ed essere state in media più brave dei nostri compagni maschi, arrivano i fatidici 30 anni che ci vedono pronte sia ad entrare nel mondo del lavoro da professioniste che a metter su famiglia, la nostra prospettiva cambia. Improvvisamente la famiglia, il compagno, la società e non ultima l’educazione ricevuta, ci richiamano al nostro ruolo “natural-istituzionale” di mamme e più in là nel tempo anche di figlie. I sensi di colpa e la mancanza quasi totale di infrastrutture di supporto fanno il resto. Diventiamo quasi completamente polarizzate sul ruolo di “supporter” che continua per anni, vedendoci impegnate con i figli prima e con i genitori anziani poi. Tutti intorno a noi ne sono ben felici. Meno noi, spesso.
Non è facile allora decidere di metterci al centro del nostro universo e imporre nuove regole che per esempio vedano tutti i componenti della famiglia, figli compresi, ricoprire ruoli di supporto in modo tale che il peso sia condiviso. Ma anche, dal riadattamento in chiave moderna di un vecchio adagio secondo cuidietro-un-grande-uomo-c’è-una-grande-donna e dietro-una-grande-donna-c’è-una-brava-collaboratrice-domestica, decidere di farci aiutare. Non importa se all’inizio il nostro stipendio sarà dilapidato fra baby-sitter e collaboratrici. Lo dobbiamo considerare un investimento sul futuro della nostra felicità: faremo carriera perché siamo brave e motivate e arriverà il giorno in cui, oltre a ricoprire il ruolo che ci compete per le nostre capacità, guadagneremo abbastanza per poter godere, noi e tutta la famiglia, non solo dei guadagni che contribuiamo a produrre ma anche della serenità e della forza che deriverà dal sentirci appagate. Che soddisfazione!
Ma perché ognuna di noi sia fautrice della propria rivoluzione copernicana è necessario sia chiaro a noi per prime che mettere la propria realizzazione al centro del nostro universo è necessario, direi addirittura imprescindibile. Ma soprattutto dobbiamo essere convinte che questa non è una scelta egoistica e quindi “innaturale” rispetto al nostro ruolo di madri e “supporter” della famiglia. La scelta è invece altruista perché nel processo che gli anglosassoni chiamano efficacemente empowerment ci rafforziamo, professionalmente e psicologicamente, pronte ad essere di aiuto contribuendo anche al miglioramento della società civile. Un esempio fra gli altri credo esemplifichi questo concetto. Quando prima di un volo ci istruiscono sulle procedure di sicurezza, ci specificano che in caso di depressurizzazione dovremo indossare per prime la maschera per l’ossigeno per poi aiutare chi necessita della nostra assistenza. Morale: per aiutare bisogna essere sicure di non aver bisogno di aiuto.
La mia convinzione è che una donna che si senta realizzata perché si è messa o è stata aiutata a mettersi nelle condizioni di esprimere il suo potenziale più elevato, sarà in grado di aiutare e non solo di dare supporto. E sono inoltre convinta che il modello educativo da applicare sia quello dell’esempio o come si dice del role modeling: il mio impegno è la miglior forma di educazione; fatti non parole, “essere” e non esserci sempre e a prescindere.
Ma la realtà è diversa e molte donne scienziate brave o persino eccellenti (di queste ci occupiamo qui) arrivano a un punto cruciale della loro carriera e si scoraggiano, certamente non senza motivo. Una carriera accademica brillante (in Italia, in Europa o in qualunque altro posto del mondo non importa) che ci porti a ricoprire posizioni apicali, si costruisce con passione, metodo ed una buona dose di determinazione, sin dall’inizio. Se si perde il primo treno, quello che passa proprio attorno ai fatidici 30 anni, tutto diventa più difficile. Questi sono però gli anni che ci vedono impegnate in primi incarichi difficili, faticosi e senza orari, spesso precari e malpagati; ma sono anche gli anni dei figli piccoli e quelli nei quali anche il compagno annaspa. Per far fronte alle oggettive difficoltà, in nome di quello che appare come il bene di tutti, siamo noi quelle che abbandonano per prime i sogni di gloria. Le statistiche parlano chiaro: molte donne, per quanto capaci come i colleghi maschi, è in questa prima e delicatissima fase che cominciano a perdere grinta e determinazione e a cedere il passo. E fatalmente le linee della forbice del grafico che riporta la numerosità di uomini e donne nelle posizioni accademiche, dagli studenti ai professori, si incrociano (She Figures 2012, Statistics and Indicators and Innovation Gender in Research, vedi Galileo: Europa, ancora poche donne nella ricerca).
Così, sebbene le studentesse siano più numerose degli studenti, gli uomini, eccellenti e non, si incamminano sicuri lungo l’ascesa che li porterà ad occupare, con una numerosità pari fino all’80%, le posizioni apicali nell’accademia. Noi, altrettanto brave o eccellenti, ci accontenteremo di ciò che resta; un misero 20%! Se consideriamo non tutta l’accademia ma solo la porzione delle scienze e l’ingegneria il rapporto è 11 a 89%.
Io me li ricordo bene i miei 30 anni: massacranti e meravigliosi. Negli Usa con un figlio di quindici mesi e un lavoro full-time in uno dei centri di ricerca più prestigiosi al mondo. E’ lì che mi sono resa conto di quanto sia stato importante avere delle figure di riferimento a cui ispirarmi per non perdere la grinta. Una donna può con la sua tenacia insegnarti più di chiunque altro. Un compagno può, con il suo aiuto e la sua considerazione, darti la forza per superare molti ostacoli, primo fra gli altri la nostra bassa auto-stima. Io, oltre alle donne della mia famiglia, da mia madre alle zie, ho avuto la fortuna di avere anche una donna come mentore (dall’inglese “mentor”, colei/colui che ti guida lungo la tua crescita professionale). A mia volta, mi sono costruita un gruppo che negli anni si è composto per oltre metà di ragazze. E questo sebbene io non abbia mai fatto niente per prediligerle: ci tengo troppo alla qualità della ricerca che produciamo per non metterla al primo posto. La mia esperienza, per quanto coinvolga numeri relativamente piccoli, mi suggerisce che quando non c’è altra priorità se non la qualità, il gender balance arriva a costo zero, cioè senza necessità di implementare strategie studiate ad hoc.
Ma a proposito del raggiungimento del gender balance un paragone preso dal mondo dalla chimica aiuta a capire. Il processo di riequilibrio della rappresentanza di genere può essere considerato una reazione in cui l’accademia si trasforma in un sistema che vede in media il 50% di donne rivestire tutti i ruoli a tutti i livelli, da quello di studentessa fino a quello di rettore o direttore generale. Le stime dicono che la reazione del gender balance, se continuerà alla velocità attuale, impiegherà per arrivare a compimento un tempo paragonabile agli anni passati da quando ci hanno concesso il diritto di voto. Se paragono me alle mie nonne mi sembra ci separi un’eternità. Ebbene, la stessa eternità ci separa dal momento in cui le pari opportunità non saranno solo un auspicio. Il problema è quindi ancora attualissimo e la sua risoluzione definitiva molto al di là da venire. A peggiorare la situazione c’è la convinzione generalizzata che il gender balance sia ormai un non-problema. Chi di noi non si è sentita dire, a volte con stizza: “Siete dappertutto e siete più di noi, che altro volete?”. La risposta è semplice: vogliamo pari opportunità nell’accesso alle posizioni apicali; tutte ed al più presto!
Ma come fare ad accelerare il processo? Continuiamo con l’esempio preso dal mondo della chimica. La lentezza del progredire di una reazione può dipendere dall’esistenza di una barriera “energetica” che frena per così dire il processo. I padri della chimica hanno capito che la barriera può essere abbassata tramite l’uso di sistemi chiamati “catalizzatori”. Il punto è: quali sono i catalizzatori da usare per accelerare il riequilibrio di genere? Uno strumento decisamente efficace sarebbe l’introduzione delle quote-rosa anche nell’accademia. Se devo dirla tutta a me viene l’orticaria solo a pensarci perché noi donne ci sentiamo svilite nel vincere una battaglia in cui manca il confronto alla pari con gli uomini, sapendo bene di valere quanto loro. Ma le statistiche parlano chiaro: nel processo c’è una stortura (“bias”) che ha spostato gli equilibri a favore della rappresentanza maschile. E’ necessario quindi intervenire, anche drasticamente, per correggerne l’andamento. Ma l’idea di introdurre le quote-rosa fa venire l’orticaria a molti perché sembra necessariamente implicare la rinuncia alla meritocrazia. Non ci accorgiamo invece che la sovra-rappresentanza maschile è essa stessa una stortura che svilisce il merito, questo per certo, da tempo immemore. Un semplice esercizio di logica lo dimostra.
Supponiamo di avere a disposizione un campione formato metà di donne e metà diuomini, che assumiamo (certamente!) egualmente intelligenti e capaci. Ora, se per ricoprire i ruoli apicali peschiamo sistematicamente molto più frequentemente dall’insieme degli uomini, riduciamo la probabilità di impiegare tutte le eccellenze nelle posizioni apicali. Quindi, esaurite le eccellenze maschili, non attingendo a quelle femminili disponibili, cominceremo a pescare maschi non-eccellenti e a piazzarli comunque al comando. Alzi la mano chi non ha mai visto un non-idoneo in posizione apicale!
Quindi, chi è contro le quote-rosa evidentemente ammette che la non-eccellenza maschile sia più accettabile di quella femminile. Purtroppo siamo ancora troppo poco rappresentate (in media) nelle stanze dei bottoni per far passare una decisione che avantaggi il riequilibrio. E’ chiaro anche che l’utilizzo delle quote rosa rappresenta uno strumento correttivo, che serve a gestire un processo transiente, e che dovrà essere abbandonato appena non sarà più necessario.
Comunque, chiunque abbia un’idea migliore la proponga. Sta di fatto che ilriequilibrio di genere è una questione di ottimizzazione delle risorse e quindi alla fine, una questione economica. Molte nazioni, fra cui la Germania e i popoli scandinavi lo hanno capito da tempo e stanno mettendo in essere una serie di programmi nei quali sono previste le quote rosa.
Luisa Torsi è Ordinaria al Dipartimento di Chimica – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.Esperta Italiana H2020 – Segreteria Tecnica del Ministro Carrozza
Coordinatrice del Consiglio di Corso di Studi in Scienza dei Materiali
Articolo apparso su galileonet.it