Ebrea, donna, perseguitata dal fascismo, vincitrice del Nobel. Sintetizzare così la vita di Rita Levi Montalcini sarebbe riduttivo, benché, certo, come sappiamo, le cose siano tra loro strettamente connesse. Nei giorni scorsi abbiamo letto, forse, troppo di lei, non perché di lei non si debba parlare, anzi, ma per gli appellativi con cui è stata richiamata alla nostra memoria: da “diva” a “nostra Signora della scienza”, da “icona” fino a “Lady of the Cells”. L’unico titolo che mi è parso confacente alla sua figura misurata è quello del Guardian: «Rita Levi-Montalcini, pioneering Italian biologist, dies at 103».
Da sempre onorata di far parte, insieme a lei, unica donna prima di me, del Comitato Scientifico di Sapere, mi si è presentata in qualche occasione la prospettiva di incontrarla, per partecipare assieme a un convegno o a una tavola rotonda. Prospettiva che, per diverse ragioni, pubbliche (gli impegni) o private, non si è mai avverata. Non vi è da stupirsi se dico: meglio così, meglio non averla conosciuta personalmente. Anzi, se avessi potuto conoscerla, non avrei accettato di scrivere qui di lei, del Nobel più longevo che ci ha donato per ora la storia: ne sarebbe emerso un mio coinvolgimento emotivo, che in alcune situazioni è opportuno non far trasparire.
Pensate alla mente, e non al corpo – sosteneva lei, invecchiando. Forse anche da giovane, così la pensava. E io mi dicevo: che stranezza! Rita Levi Montalcini, Nobel per la Medicina nel 1986, per la scoperta del NGF (Nerve Growth Factor), ovvero del fattore di crescita nervoso, dovrebbe credere all’esistenza del cervello, non anche a quella della mente, e di conseguenza non menzionare la mente per nulla. Mi sbagliavo.
Non sono qui per ripercorrere tutta la sua intensa vita, meritevole di più di un volume (e peraltro magistralmente riassunta da Nature per i suoi cento anni) ma a qualcosa vorrei accennare. Nata a Torino da famiglia ebrea, studiò all’Università di Medicina e Chirurgia, contro la volontà di un padre, forse un po’ misogino, e, in ogni caso, convinto che l’università non fosse adatta alle donne – lei però riconoscerà a lui, come, del resto, a sua madre, la propensione a non lasciarsi intimorire dalle difficoltà. In ogni caso, la volontà contraria del padre rappresentò all’epoca il minore dei mali. Le leggi razziali (ad hoc, e prive di una qualunque giustificazione scientifica) le vietarono ogni prospettiva di ricerca. Il criminale progetto per cui la cosiddetta razza ariana doveva aver la meglio: spaventosa decisione di qualche potente pazzo, capace di esaltarsi e venire esaltato da masse in cui ogni individuo ci ha rimesso qualcosa di vitale.
Rita Levi Montalcini, a causa di quelle leggi, di quel «Manifesto per la difesa della razza» che Benito Mussolini pubblicò nel 1938, firmato (non dimentichiamolo) da diversi scienziati (scienziati?) italiani, si recò in Belgio presso l’Istituto di Neurologia dell’Università di Bruxelles. Belgio, presto invaso: rientrò in Italia, senza arrendersi. Prima della sua decisione di partire per gli Stati Uniti, i laboratori, necessari alle sue ricerche, saranno perlopiù casalinghi, tra le mura di casa. Negli Stati Uniti lavorò a lungo e il suo Nobel rimane, a mio avviso, un Nobel non italiano: sono le risorse americane ad averle concesso tale riconoscimento. Il suo rientro in Italia viene magnificato, la sua celebrità acclamata da tanti. Trascurando, tra l’altro, che il suo Nobel non è stato conseguito in solitario, bensì con il biochimico Stanley Cohen. Motivazione egregia quella del conferimento: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni Cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo». Se ricordo qui il fatto che Duilio Poggiolini ha ventilato la sgradevole ipotesi che il Nobel fosse stato attribuito a Rita Levi Montalcini in cambio di una cospicua somma di denaro elargita dalla casa farmaceutica Fidia alla Fondazione Nobel, è solo per rilevare quanto in Italia si passi con disinvoltura dall’esaltazione alla denigrazione, senza mai rendere giustizia alla vera natura del personaggio.
Altre maligne insinuazioni si sono sentite quando Rita Levi Montalcini decise di donare una parte del premio alla Comunità ebraica, per finanziare la costruzione di unaSinagoga nella città di Roma. Ma non si era dichiarata atea? Eppure, si possono elargire somme di denaro a una comunità religiosa senza che ciò implichi cadere in una contraddizione logica con le proprie credenze o non-credenze in materia di fede. E si può, parimenti ricevere e accettare dal Presidente Reagan la National Medal of Science (una delle tante grandi onorificenze che le sono state attribuite), senza per ciò essere reganiani.
Quando si guardano la vita, il lavoro, l’impegno di Rita Levi Montalcini di contraddizioni non ne intravedo, almeno dal mio punto di vista. Molti anni dedicati alla ricerca scientifica (quando partì per gli States, ci sarebbe dovuta rimanere qualche mese: vi si trattenne poi per ventisei anni), all’insegnamento (dapprima come professore associato e in seguito da professore ordinario, fino al suo pensionamento, sempre nella medesima Università, la Washington University di Saint Louis), nonché alla divulgazione scientifica: «L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo. Ritengo che l’imperfezione sia più consona alla natura umana che non la perfezione». E’ una sua affermazione tratta dal volume autobiografico Elogio dell’imperfezione(Garzanti 1987) che mi colpisce per la sua felice semplicità.
Affascinata dal monito «Abbi il coraggio di conoscere» (monito non suo, ma di un grande filosofo, monito che è titolo di un volume più recente, edito da Rizzoli nel 2004) e che sottolinea quanto, in questa epoca diseducata e ben poco coltivata sotto il profilo dei valori epistemici, la conoscenza non sia più scontata, anzi la conoscenza esiga coraggio, oltre che, come Rita Levi Montalcini scrive, «obbligo morale»: «Deve essere considerato come obbligo morale di tutti gli individui, sia come esseri umani e ancor più in qualità di scienziati ed educatori, il compito di affrontare le problematiche che affliggono l’intero genere umano usando al massimo grado le capacità raziocinanti in loro possesso, anche quando questo dovesse significare lottare contro interessi prestabiliti dalle sfere di influenza vincolate a quelle del potere».
Inguaribile lottatrice e inguaribile ottimista, ha scelto la scienza, rifiutando, ancor giovane, a vent’anni, l’idea di sposarsi e avere figli: soleva dire che ci fossero cose ben più interessanti di cui occuparsi, insistendo oltre che sulla ricerca scientifica, sulle relazioni umane e sull’impegno nel sociale. Non so se si sia mai dichiarata femminista, ma per le donne si è molto adoperata: basti menzionare la Fondazione Rita Levi Montalcini. Andate sul sito e leggete cosa lei scrive con l’obiettivo di migliorare il futuro delle donne africane, di offrire loro la possibilità di conoscere: «Per l’istruzione, chiave dello sviluppo, ritengo necessaria un’azione comune nel contesto mondiale di interconnessione di popoli e di continenti che all’inizio del terzo millennio impone una normativa di rapporti civili. Personalmente ho dedicato la mia vita alla ricerca e al sociale. La vita ha valore se non concentriamo l’attenzione soltanto su noi stessi ma anche sul mondo che ci circonda. Sono pervenuta a tale decisione in base all’esigenza di far fronte a una delle maggiori problematiche che gravano sulle popolazioni dell’Africa, che consiste nel mancato accesso all’istruzione per la quasi totalità delle appartenenti al sesso femminile. Certo si tratta di una goccia nel mare, al confronto delle altre grandi sofferenze del Continente africano, ma sono convinta che aiutando le donne nel raggiungimento di questo diritto, si possa guardare alla libertà di crescita e di sviluppo degli individui della propria società di appartenenza e di quella globale».
Oltre dieci anni fa, Rita Levi Montalcini prospettò la possibilità di creare un istituto scientifico dedicato interamente alle ricerche sul cervello. Possibilità che si è realizzata nel 2002 con l’European Brain Research Institute, un polo di eccellenza che ha accolto e accoglie molti giovani. Non ricordo dove ho letto che Rita Levi Montalcini vi si recasse tutti i giorni, a seguire nei laboratori, con una particolare attenzione le donne, le ricercatrici, come a volerle sostenere, anche con la sua sola presenza, presenza allo stesso tempo comoda e scomoda, testimone comunque eccezionale: quante donne hanno ottenuto il Nobel per la Medicina? Direi, dieci. Quanti uomini? Ci avviciniamo ai duecento. E poi quante donne fanno parte della Pontificia Accademia delle Scienze? Solo lei. Benché gli esempi potrebbero proseguire all’infinito, questi mi paiono sufficienti per comprendere un immotivato gender gap, contro cui Rita Levi Montalcini si è espressa in varie occasioni con fermezza. Fermezza che non le è mai mancata neanche da senatrice a vita, su nomina di Ciampi nel 2001: a chi ironizzava sulla sua anzianità, cosa di cui lei, invece, andava (giustamente) fiera, rispondeva che a cent’anni la mente è superiore a quella che si possiede a venti, se non fosse altro per l’esperienza accumulata.
Mi pare onesto chiudere questo breve ricordo della sua educata, elegante, ferrea intelligenza con una lettera inviata a Repubblica nell’ottobre del 2007: «Caro Direttore, ho letto su Repubblica di ieri che Storace vorrebbe consegnarmi, portandomele direttamente a casa, un paio di stampelle. Vorrei esporre alcune considerazioni in merito. Io sottoscritta, in pieno possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, continuo la mia attività scientifica e sociale del tutto indifferente agli ignobili attacchi rivoltimi da alcuni settori del Parlamento italiano. In qualità di senatore a vita e in base all’articolo 59 della Costituzione italiana espleterò le mie funzioni di voto fino a che il Parlamento non deciderà di apporre relative modifiche. Pertanto esercito tale diritto secondo la mia piena coscienza e coerenza. Mi rivolgo a chi ha lanciato l’idea di farmi pervenire le stampelle per sostenere la mia “deambulazione” e quella dell’attuale Governo, per precisare che non vi è alcun bisogno. Desidero inoltre fare presente che non possiedo “i miliardi”, dato che ho sempre destinato le mie modeste risorse a favore, non soltanto delle persone bisognose, ma anche per sostenere cause sociali di prioritaria importanza. A quanti hanno dimostrato di non possedere le mie stesse “facoltà”, mentali e di comportamento, esprimo il più profondo sdegno non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria».
articolo apparso su Galileo. Giornale di scienza